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Scritto da Redazione
Cronaca
11 Dicembre 2020

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Parlano tutte adesso, quasi tutte insieme, le tante donne che hanno cercato rifugio in quella che credevano una struttura protetta per loro e per i loro bambini e che, invece, lì dentro hanno trovato l’inferno. Parlano adesso perché chi teneva in mano il manico di quel terribile coltello che rescindeva per sempre il legame con i loro figli, è stato scoperto e fermato e loro non hanno più paura.

Anche la storia di Samanta Pasquinucci è una storia di dolore e di minacce: le peggiori – ti porteremo via tua figlia – e soprattutto, esattamente quelle che in una struttura che vanta la massima attenzione alle madri in difficoltà e alle famiglie, non dovrebbero mai nemmeno essere pensate.

“Sono entrata nelle strutture Serinper nel 2015: ho passato un anno a Casa Sonrisa e uno al Gap di Stiava a Massarosa e poi otto mesi a Montignoso – comincia a raccontare Samanta – Avevo problemi di dipendenza affettiva che mi avevano portato ad abusare di psicofarmaci ed avevo una bambina di cinque mesi. All’epoca avevo 36 anni e altri due figli adolescenti. Chiesi io di essere aiutata e portai la piccola con me, mentre gli altri miei figli rimasero con il loro padre, pur venendo spesso a trovarmi. Al momento in cui si entra in struttura i figli minori vengono affidati ai servizi sociali e i bambini non possono uscire dalla residenza mentre le mamme sì. Ogni settimana venivo sottoposta a visite psicologiche che evidenziarono che avevo bisogno di psicoterapia per superare la dipendenza affettiva, ma che confermarono che non avevo problemi come mamma. Per due anni dovetti anche seguire un percorso al Sert per superare l’abuso di benzodiazepine e ogni volta che dovevo andare agli incontri dovevo lasciare la bambina nella struttura, affidata alle altre mamme, alcune delle quali poi vennero dichiarate inidonee per i loro figli. Gli operatori e la guardiana sempre presente giorno e notte non si occupano minimamente dei minori.”

Anche Samanta ha descritto la vita all’interno della casa per mamme di Serinper come una sorta di misura punitiva: turni precisi e improrogabili per fare le pulizie; turni rigidissimi e brevissimi per mangiare; nessun accesso alla cucina negli intervalli tra i pasti; armadietti col cibo e coi medicinali chiusi a chiave e controllati solo dalla guardiana; razionamento di ogni genere di conforto compresa la carta igienica, controllo quasi militare delle pulizie svolte con l’ordine di rifarle se ritenute non in linea con quanto richiesto.

Regole ferree che cozzavano, soprattutto, con la presenza di così tanti bambini molto piccoli che avevano esigenze e richieste non prorogabili: “Dovevamo far tutto entro le nove del mattino - prosegue Samanta - ma c’era chi doveva allattare o chi doveva seguire il proprio bambino e veniva redarguito se non finiva le pulizie in tempo. Nel mio centro eravamo in 15 mamme con ancor più bambini: la spesa settimanale per tutti era di soli 100 euro. Una di noi a turno poteva andare con gli operatori a fare la spesa. Compravano solo cibo scadente e in quantità insufficiente: un chilo di pomodori, un chilo di pesce surgelato. Come facevamo a sfamarci tutti quanti? C’erano solo tre seggioloni e dovevamo fare i turni per dar da mangiare ai nostri bimbi. E i bambini non avevano alcun giocatolo, né un box né altre cose per potersi svagare un po’. Non avevamo nemmeno la televisione. Per un anno ho vissuto tagliata fuori dal mondo senza sapere cosa succedeva fuori. Ogni tanto, quando mi toccava andare a far la spesa compravo anche un giornale per avere qualche informazione. Comunque la tv c’era, ma la teneva nella sua camera la guardiana. E c’erano anche giochi per i bimbi, seggioloni, passeggini e abiti che venivano donati alla struttura ma che restavano rinchiusi a chiave in una stanzetta esterna e non ci venivano dati mai. A volte entravamo di nascosto se la guardiana lasciava la porta aperta per prendere qualcosa che ci serviva.”.

La parte più choccante, tuttavia, riguarda le pressioni psicologiche a cui le ospiti venivano sottoposte: “Ci facevano il lavaggio del cervello per dirci che eravamo donne e non avevamo bisogno di nessuno allo scopo di staccarci dai nostri compagni e poi per convincerci che eravamo inadatte a fare le madri e che sarebbe stato meglio dare i nostri figli in adozione. Ho visto ragazze che erano più inesperte nel gestire i loro bambini o che avevano avuto grandi sofferenze in passato che non venivano aiutate da nessuno, anzi colpevolizzate e convinte di essere pessime madri. Una ragazza aveva tre bambini e non riusciva a gestirli bene ma non voleva darli in affido a nessuno. Lei stessa era stata in orfanatrofio e poi adottata. Venne spesso ripresa per come teneva i suoi figli e mai nessuno le insegnava il modo giusto per farlo finché un giorno, senza dirle nulla, glieli hanno portati via tutti e tre. Lei è andata a prenderli all’asilo e non li ha trovati più. Ho visto un’altra ragazza di colore a cui hanno portato via all’improvviso la sua bambina di nome Hope per portarla alla struttura Numeri Primi e darla in adozione. Ricordo le urla disperate della mamma.”.

Anche Samanta conferma: il silenzio che tutte quelle ragazze hanno tenuto finora era la condizione per evitare che venissero loro portati via i figli grazie alle relazioni fatte da Serinper. Lei è riuscita a tenere con sé la sua bambina più piccola e adesso vive in una casa singola in una struttura di Camaiore che non fa capo a Serinper. Spera di poter avere presto una casa sua in cui riunire tutti i suoi figli. Ha superato i suoi problemi di dipendenza affettiva e dai farmaci e come tante altre ragazze che hanno condiviso il suo percorso ha deciso di denunciare chi, invece di aiutarla, ha cercato di farla affondare sempre di più.

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