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Scritto da irene decorte
Cultura
21 Gennaio 2025

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“Meglio l’arte del Prozac”: va dritta al punto con il titolo della sua più recente fatica Lorella Pagnucco Salvemini, autrice veneziana trapiantata in Versilia e direttore della rivista d’arte AW ArtMag. In oltre 30 anni di giornalismo culturale, ne ha viste accadere di belle nel mondo dell’arte: questa raccolta di saggi e articoli è un sunto delle sue riflessioni e osservazioni, caratterizzate da uno sguardo critico in maniera pungente e allo stesso tempo leggermente ironico che non risparmia nessuno, né una manifestazione internazionalmente riverita come la Biennale di Venezia né i nuovi miti dell’arte contemporanea. 
Ma lo sguardo dell’autrice, così critico e a tratti dissacrante quando si tratta di passare a setaccio vizi e idiosincrasie del mondo che ruota intorno all’arte contemporanea, si addolcisce, si fa lirico e intenso quando parla di grandi artisti del calibro di Caravaggio e Velázquez, Hayez e De Lempicka. 
Di tutto questo e di altro ci ha parlato la stessa Lorella Pagnucco Salvemini. 

Meglio l’arte del Prozac: ci spiega il titolo del suo ultimo libro?

“Il volume raccoglie una selezione di articoli sull’arte da me scritti dal 1989 a oggi. Il titolo è preso da un testo contenuto all’interno. Lo spunto deriva dal risultato dei ricercatori dell’università di Tronheim in Norvegia, per i quali chi visita musei e gallerie avrebbe un livello molto basso di ansia, patologia in preoccupante aumento nel mondo occidentale. Considerato che in Italia oltre 12 milioni di persone fanno un uso massiccio di ansiolitici e psicofarmaci, quel titolo mi è sembrato una sorta di invito da cogliere. Poi, è anche divertente, no?”

Quale accoglienza sta ricevendo il libro?

“Positiva, al di là delle aspettative. Sto ricevendo diversi apprezzamenti: c’è chi si sofferma sulla qualità della scrittura, chi sul tocco ironico con cui sono trattati temi dell’attualità artistica, chi coglie l’intensità con cui sono presentati artisti dei secoli passati”.

Uno degli argomenti da lei affrontati è quello delle Biennali di Venezia: delle edizioni recenti, se ne salva qualcuna? Cos’è in questo momento la manifestazione, e cosa potrebbe essere in futuro?

“Quel capitolo, intitolato Venezia triumphans, raccoglie le recensioni di quasi tutte le Biennali dal ’93 a oggi. Non ne salvo nessuna, anche se c’è da dire che, ovviamente, ogni edizione abbia comunque proposto artisti di valore e ci mancherebbe che in oltre 4-500 autori esposti non ce ne fosse nemmeno uno in grado di parlare direttamente all’anima del visitatore. Il problema è il taglio critico spesso forzato impresso dai direttori. È come se costoro prima si dessero un tema, poi andassero in cerca di chi è in grado di sostenerlo figurativamente. Si tratta di un’operazione inversa rispetto a quanto lo statuto della manifestazione veneziana prevede: la raccolta di quanto di nuovo si è prodotto nel campo dell’arte nei due anni precedenti l’evento. Le ultime edizioni sono state davvero deludenti per l’aggiunta di impostazioni politiche che poco hanno, o dovrebbero avere, a che fare con l’arte. Per non parlare del sopravvento fastidiosissimo del politically correct che crea più danni della grandine. Per il futuro? Davvero ci vorrebbe qualcuno dalla solida preparazione artistica e da una meravigliosa indipendenza dalle mode del momento. Quanto alla prossima direttrice, Koyo Kouoh, onestà vuole che non ci si pronunci prima di aver visto il risultato del suo lavoro. Ha un curriculum di tutto rispetto per gli incarichi direzionali finora assunti. Il timore, tuttavia, di un taglio panafricano ed eccessivamente femminista rimane scorrendo la sua biografia”.

Quando e come si è approcciata al mondo dell’arte?

“Sono veneziana. Ovunque in città si posi lo sguardo trova arte. Siamo abituati a convivere fin dall’infanzia con i mosaici di Bisanzio, le bifore gotiche di Palazzo ducale e di molti altri sul Canal grande, con la declinazione veneta del rinascimento negli edifici e negli artisti: pensiamo a Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese. C’è un rischio, però: diventare orgogliosi per traguardi che non si è minimamente contribuito a creare. Per rispondere alla domanda, ho iniziato a scrivere d’arte moderna e contemporanea nel 1988, un po’ controvoglia e un po’ come sfida a me stessa: diventare figlia del mio tempo”. 

Se dovesse descrivere in poche parole lo stato dell’arte contemporanea, quali utilizzerebbe?

“Ogni forma d’arte è sempre specchio della sua epoca. Inevitabilmente, quella attuale riflette contraddizioni, vizi, eccessi e qualche virtù della nostra società. Da giornalista, mio compito è documentare quanto accade. Spesso, di fronte a opere kitsch, volgari, blasfeme, o troppo astrusamente cervellotiche, in una sorta di legittima difesa, ricorro all’ironia”. 

Quali sono i più meritevoli tra gli artisti contemporanei? E quali i più sopravvalutati?

“La storia della critica d’arte lo insegna: la fortuna o sfortuna di un artista non è per sempre. Autori osannati oggi potrebbero cadere nell’oblio domani e viceversa. Poi, sovente accade di confondere il valore di un’opera con il suo prezzo. Non è affatto garanzia di qualità un costo spropositatamente elevato. Personalmente, prendo - e invito a prendere – con circospezione certi esiti di battute d’asta milionarie, dietro le quali agiscono astute operazioni di marketing. Koons, Cattelan, Hirst, tanto per fare dei nomi che si ritrovano nel libro”.

Com’è cambiato il mondo dell’arte da quando vi si è approcciata per la prima volta?

“Dall’89 a oggi, abbiamo assistito ai crolli del muro di Berlino, delle Twin Towers e delle Lehman Brothers: necessariamente, anche l’arte ne ha risentito. Alcuni artisti, sull’onda dell’emozione di questi grandi capovolgimenti storici, hanno avvertito la necessità di rafforzare l’impegno. Per costoro, etica ed estetica procedono di pari passo. Altri, invece, hanno reagito alle tragedie con lo stesso edonismo sfrenato con cui ha reagito buona parte del mondo occidentale. Da qui, il trionfo di una produzione legata all’effimero, al superficiale, a una giocosità sterile. E sono quelli che, non a caso, ora godono di maggiore affermazione nel mercato”.

Venezia e Versilia, la città d’origine e il luogo d’elezione: in cosa sono simili, e in cosa differenti?

“Rappresentano i miei luoghi dell’anima, luoghi entrambi magici per quell’affascinante miscuglio di bellezza, storia e natura. A Venezia ritrovo il mio, spesso frenetico, passato; in Versilia, l’opportunità di un presente che concede spazio all’otium, un tempo inteso, come per i latini, da dedicare alla riflessione”.

Qual è, in questo momento, il ruolo e il dovere delle riviste d’arte?

“Continuare a vivere! In Italia, ci sono sempre meno riviste d’arte. Sostanzialmente, le ragioni sono due: elevato costo delle edizioni cartacee, lettori sempre più superficiali che all’approfondimento preferiscono l’informazione veloce. Da qui, la sfida con la fondazione di AW ArtMag nel 2020 di proporre una rivista rivolta a tutti, ma non per tutti. Una pubblicazione bella per qualità editoriale, grafica, carta; approfondita, ma mai noiosa, nei contenuti; internazionale negli argomenti e nella diffusione (totalmente bilingue e distribuita anche in 15 nazioni estere). Volevamo vedere se in un contesto generale così mortificante, ci sarebbe stato spazio per una follia come la nostra. Cinque anni dopo, pur fra tante difficoltà, il bilancio è positivo”.

Qualche progetto per il futuro?

“Chi non progetta è perduto. Senza una proiezione sul domani, anche l’oggi diventa vuoto e sterile. Dunque, tante idee che per scaramanzia preferisco non rivelare”.

Per concludere: cos’è l’arte?

“È dai tempi di Platone che si cerca una risposta. La storia della nostra cultura è piena di definizioni. Da giovane, baldanzosamente e senza esitazione, avrei risposto “l’arte è comunicazione”, etimologicamente, un mettere assieme autore e fruitore. Oggi, per ricondurre al titolo del libro, dovrei dire: “l’arte è terapia”. Ma si tratta pur sempre una interpretazione parziale. In realtà, quasi per reazione alla mentalità imperante, ora sono molto più attratta dal concetto dell’inutilità dell’arte: tanto più è inutile, tanto più è necessaria”.

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