Per Vincenzo Musacchio, giurista, professore di diritto penale e criminologia in varie università italiane ed estere, la risposta alle aspettative di giustizia delle vittime sta nel processo. L’attenzione e la cura alle vittime sono al centro di un lungo percorso di civiltà manifestatosi nello sviluppo del diritto penale e processuale, che trova pieno riconoscimento nella nostra carta costituzionale e al quale le fonti internazionali hanno contribuito in maniera decisiva.
Professore, cosa ne pensa della decisione della Cassazione di prescrivere alcuni reati, nel processo della strage di Viareggio?
La Cassazione non poteva fare diversamente: ha applicato la legge. Il problema è all’origine ed è nelle disfunzioni ataviche della giustizia penale. Il fatto che la funzione stessa del processo – di garanzia per l’imputato – non possa renderlo il luogo destinato alla piena soddisfazione anche della vittima rappresenta una constatazione d’impotenza spesso legata proprio alla lungaggine dello stesso processo penale. La risoluzione di un simile problema dovrebbe essere il punto di partenza di un diverso percorso possibile per una piena tutela delle vittime dei reati. Per dirla più semplicemente: se il processo fosse stato celere, oggi non avremmo avuto le prescrizioni. Questo non significa spirito vendicativo ma semplicemente giustizia che dovrebbe essere rappresentata sempre e comunque dal giudice con la bilancia e con la spada in mano.
Secondo lei la funzione del processo penale – di garanzia per l’imputato – rispetta la vittima del reato?
Ritengo il processo penale sia il luogo deputato anche alla protezione e alla tutela della vittima. Il processo penale rappresenta un’istanza per la quale una vicenda che interessa due soli soggetti – autore e vittima del reato – fuoriesce dalla loro specifica sfera d’interesse per assumere una rilevanza che interessa invece tutta la collettività, quindi la comunità dei consociati rappresenta l’elemento cardine del processo. Proprio il riconoscimento della vittima in quanto tale rappresenta uno snodo essenziale per la sua tutela. La necessaria visibilità offerta a chi ha subito un danno dal reato oggetto di accertamento nel processo penale diventa il punto di partenza non soltanto per le pratiche risarcitorie, ma anche e soprattutto per una fuoriuscita dalla condizione di minorità in cui si trova il soggetto. L’importanza del riconoscimento della condizione di vittima costituisce il legame simbiotico che lega tutte le analisi in materia di vittimologia. Il processo penale può, allora, svolgere una funzione essenziale in questa direzione, e costituire il punto di partenza per una compiuta tutela della vittima.
Alcuni autorevoli studiosi del processo penale (Spangher, Amodio) ritengono che il processo penale sia governato dall’imputazione del pubblico ministero e che questo orienti spesso le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. Lei cose ne pensa?
In parte devo riconoscere potrebbe essere vero. Questo però accade ancora una volta per le disfunzioni del processo penale attuale e del sistema della giustizia penale nel suo complesso. Dovremmo cominciare a riflettere seriamente sulla separazione delle carriere e sulla discrezionalità dell’azione penale. Direi che o decidiamo di andare verso il vero rito accusatorio oppure torniamo al vecchio inquisitorio. Gli ibridi come si vede non funzionano.
Ritiene che i giudici siano immuni dalla condizione emotiva che la vittima può esercitare sulla correttezza dei processi decisionali?
Io credo di sì. Lo dimostrano le innumerevoli sentenze che confermano la non influenzabilità dall’impatto emotivo che un certo reato potrebbe avere su di loro in quanto uomini oltre che giudici.
A suo parere il processo penale può raggiungere i suoi scopi se la collettività non ne condivide le regole e i principi?
Torniamo sempre sul medesimo punto. Il processo penale e il suo funzionamento sono lo specchio della democraticità di un Paese. Se esso per le sue disfunzioni invece che essere un ristoro per la vittima diventa una pena allora siamo di fronte a qualcosa che non va. Credo tuttavia che ancora abbiamo una magistratura capace di rimettere alla società un processo penale in grado di compiere un accertamento equilibrato e di pronunciare una sentenza giusta.
In molti, anche nel processo sulle vittime di Viareggio, hanno parlato di giustizia a furor di popolo, lei cosa ne pensa?
La mia idea di giustizia è connessa alla ragionevolezza non condivido mai le spinte populiste che devo dire a volte creano un danno proprio alle vittime del reato. Il sistema “Giustizia” di un Paese democratico qual è il nostro deve muoversi in modo armonioso per colpire inesorabilmente la criminalità ma senza far mai prevalere l’istinto di vendetta ma soltanto quello di giustizia e di verità. Ho sempre insegnato ai miei studenti l’importanza dell’umanizzazione del diritto penale impiantata all’interno delle complesse dinamiche dei rapporti sociali nelle società a democrazia avanzata come la nostra. A proposito della strage di Viareggio credo che l’assistenza e la tutela delle vittime nel processo avrebbe avuto “soddisfazione” se il processo si fosse svolto con la celerità che avrebbe dovuto richiedere una tragedia così grave. Oggi questo tipo di assistenza e di tutela non coincide con la più profonda richiesta di giustizia della vittima. Uno Stato veramente attento alla persona offesa dal reato si dovrebbe proporre – rendendola possibile – la realizzazione di una riforma generale che eviti nuovi casi come questo dove ripeto i giudici della Suprema Corte hanno applicato semplicemente la legge.